L’antica produzione e lavorazione dell’olio ha messo radici in tutto il bacino del Mediterraneo fin da tempi antichi. Una campagna archeologica israelo-americana nel 1981, scoprì a Tel Mique Akron, vicino Tel Aviv, un enorme impianto destinato alla macerazione delle olive, progettato dai Filistei. Venne così alla luce un enorme complesso industriale della civiltà filistea, risalente al 1000 a.C., dotato di circa 100 presse e impianti per la macerazione del prodotto, destinato a divenire olio, che funzionavano tramite pietre tondeggianti, con una produzione annua di circa 1000-2000 tonnellate. Anticamente l’olio greco era considerato tra i migliori.
Le zone della Magna Grecia dove più florida era la coltura dell’olivo erano quelle di Sibari e di Taranto. Ma nella provincia di Lecce si contano centinaia di centri di lavorazione, ed anche la zona a nord del capoluogo era interessata da questa importante fonte di economia. Diverse masserie erano dotate di questi grandiosi impianti ipogei, vere e proprie opere di alta ingegneria. Gli antichi Romani molivano le olive in appositi frantoi che essi chiamavano TRAPETA o TRAPETUM. Con il termine “TRAPPETO” noi indichiamo questi luoghi dove avveniva la trasformazione delle olive in olio. I romani indicavano una macchina dove si separava il nocciolo dalla polpa. I frantoi ipogei e semipogei erano ricavati sia nei centri urbani che nei territori extra-urbani, ed in maggioranza scavandoli nelle rocce calcarenitiche, volgarmente dette: tufo, pietra mazzara o carparo e pietra leccese o biancone. Nel calcare detta anche pietra viva, i frantoi ipogei si riscontrano in numero più esiguo, ivi essendo la pietra particolarmente dura e compatta, si utilizzavano maggiormente le grotte. Generalmente sottostanti al piano stradale, raggiungono all’interno un’altezza media minima che varia dai 2,5 ai 4 metri circa. Il loro andamento planimetrico può essere classificato, in funzione della disposizione degli ambienti di deposito, di lavoro e di soggiorno, nei tipi: frantoio a camera, frantoio a corridoio, frantoio a raggera e frantoio articolato. Quest’ ultimo destinato agli operai e agli animali addetti al movimento rotatorio delle macine. Il motivo più comunemente noto che faceva preferire il frantoio scavato nel sasso a quello costruito era la necessità del calore.
L’olio, infatti, diventa solido verso i 6° C. Pertanto, affinché la sua estrazione sia facilitata, è indispensabile che l’ambiente in cui avviene la spremitura delle olive sia tiepido. Il che poteva essere assicurato solo in un sotterraneo, riscaldato per di più dai grandi fumi che ardevano notte e giorno, dalla fermentazione delle olive e, soprattutto, dal calore prodotto dalla fatica fisica degli uomini e degli animali. Accanto a questo, tuttavia, vanno considerati altri motivi, principalmente quelli di ordine economico. Il costo della manodopera per ottenere un ambiente scavato era relativamente modesto perché non richiedeva l’opera edilizia di personale specializzato, ma solo forza di braccia, e non implicava spese di acquisto e di trasporto del materiale da costruzione. Anche lo smaltimento degli ultimi residui della produzione olearia era agevolato dalla facilità con cui potevano trovarsi, data la natura carsica dei sottosuolo, le profonde fenditure naturali che ingoiavano ogni traccia di quel rifiuti.
Queste strutture hanno dimensioni planimetriche che variano da mq 200 a 700 circa ed alcune conservano — anche se in completo abbandono — ancora le vasche, con una, due o tre pietre molari e i torchi alla “calabrese” o alla “genovese”. Queste “macchine industriali” sono le più esposte al degrado e alla scomparsa dai luoghi di produzione ormai da decenni non più in attività. Ma rappresentano oggi uno specchio sul passato dei nostri antenati.
Il lavoro delle olive non era la sola attività economica che sosteneva le comunità agricole. Intorno alle masserie c’era un’altra attività fiorente, quella dell’allevamento dei colombi. L’allevamento dei colombi risale ad epoca remota, ma a detta del prof. Antonio Costantini (Masserie del Salento, Congedo Editore) probabilmente la costruzione di edifici dedicati all’allevamento di questi volatili si può fare ricondurre alla metà del XIII secolo.
A partire dal ‘400 in poi si comincia sistematicamente ad erigere questi grandi monumenti, che divennero quasi opere d’arte nel ‘500, che consentivano una facile nidificazione dei volatili, che entravano nella torre dall’alto (priva di copertura), alloggiando nelle centinaia di nicchie predisposte. Una porticina consentiva all’uomo di entrare all’interno, ed una serie di scalette ricavate dagli stessi conci in fase di costruzione sulla parete, accompagnava l’allevatore in alto, accedendo così alle uova, ed ai giovani volatili, prima che questi potessero volare. Per via delle alte qualità nutritive, la carne di colombo veniva utilizzata per l’alimentazione dei bambini e degli anziani, ed un brodo preparato con essa era il cibo prediletto delle donne che avevano appena partorito. Inoltre la columbina, ossia gli escrementi dei volatili, era utilizzata nella concia delle pelli, ed era ritenuta un ottimo fertilizzante per i campi.
Questo è un piccolo spaccato della vita nei campi del nord leccese!